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Pistacchio, un amore operaio.

Era partito d’estate, alla fine della scuola, per fare vacanza, ma anche per crescere, come si dice “per fare esperienza”. Tosto e fragrante, giovane imbelle lasciava la sua Randazzo, colmo di speranze e carico di aspettative.

Avrebbe frequentato il bel mondo, via Veneto a Roma, Piazza della Libertà a Trieste l’avrebbero visto in allegra compagnia a Venezia per il festival e la Biennale, o in galleria a Milano, ma era parco di cultura cattolica, quindi drink, aperitivo e la balneare Viareggio che tanto gli erano stati decantati gli lasciavano solo un senso di vuoto aumentandogli la nostalgia per la sua terra.

Non l’avevano, questi svaghi continentali, convinto più di tanto, e nella sua peregrinazione nelle varie città, Napoli, Genova, Roma, Pietrasanta, Venezia, Stresa e infine Trieste, gli era rimasto un vuoto, una sensazione di incompletezza, era profondamente deluso.

Lui focoso e serio, amava poco perdere tempo con simili facezie e preferiva meditare un miglior futuro. Lui era certo che con serietà e moderazione avrebbe lasciato il segno, era certo di meritare una folgorante carriera, d’altronde come dargli torto, non era forse il più bel Pistacchio della Sicilia, e quindi per quanto era dato credere, del mondo intero ?…

Gli aveva telefonato un giorno la madre e girato una allettante proposta, di unirsi alla D.C.T. (Dolci Compagnie Trinacria), ma lui aveva declinato, ben ché fosse un posto riservato solo alla migliore gioventù siciliana, la trovava squallida, provinciale, tronfia, stare con quei buzzurri dei Cannoli, la Ricotta e i Canditi, famiglie bene ma pur sempre di provincia, una ben misera soddisfazione, troppo poco, un lavoro ordinario che qualunque pistacchio con un po di carattere poteva fare.

Lui no, aveva viaggiato e visto quasi tutto il continente, meritava di più.

Comunque qualcosa era irrisolto, ancora gli sfuggiva. Non si sentiva affatto realizzato, si trovava in quella “linea d’ombra” che i comandanti di nave a vela tanto temevano. Fù così che, in Galleria a Milano un suo caro amico, tal Martini o Rossi, una sera seduti in un bar gli raccontò di aver sentito parlare bene della Bolscèvica Bologna, terra di comunisti ma anche di profonda cultura, dove,- dicevano altri – , era facile perdere la propria morale.

Il nostro, battè di pìglio, e tronfio di orgoglio, si sfidò, disse all’amico che lui problemi di perdizione non ne aveva, che la sua condotta era oramai immutabile, da navigato lupo di mare quale era diventato, “che tanto aveva visto e tanto provato”, nulla più lo avrebbe stupito o scalfito.

Ma, disse anche, – in realtà mentendo, perché invece ne era profondamente incuriosito -, che “una città vale l’altra e la lascivia o i vizi” di una città a lui non avrebbero fatto “ne caldo, ne freddo”.

Tant’è che lasciò Milano il giorno dopo, e se ne partì … alla volta di Bologna.

In realtà, soprattutto all’inizio la città non gli piacque un granché: Tortelloni boriosi, vecchi Lessi in Carrello, Pesanti Fritti, Lambrusco, una montagna di Squaccheroni che male legavano al suo essere dolce, e non ultimo “era piena di Culatelli” – “e che faccia tosta”, ne andavano anche fieri, “venivano dalla provincia e sfacciati si vendevano anche piuttosto cari”, “lui che razzista non era” ma … certe cose non lo, – diciamo -, “convincevano” (così scrisse alla madre). Un giorno ormai stanco dei portici, e in procinto di ripartire … un giorno di sole (in una terra così nebbiosa caso alquanto raro) … La vide….

La luce del sole s’era infilata dal portico e la faceva brillare, la mostrava lucente, un angelo. Il silenzio che si creò, per qualche oscura coincidenza, aumentò di molto il suo stupore, era li davanti a lui che rideva e scherzava con tanti maschi anche stranieri, non ebbe occhi che per Lei.

Perse il sonno e l’allegria, la fede e altro ancora. Non riusciva più a dormire e per più notti, passo in veglia sospirando e fremendo, ma lei era sempre circondata da altri. “Come faccio” – pensava il misero – “come l’avvicino”. Pensava e fremeva, sospirava e sognava. Dopo diversi giorni di appostamenti e inseguimenti … finalmente se la trovò davanti, sola.

Lei gli sorrise, e per un nano secondo, un momento, un breve momento la voluttuosità di quello sguardo e le promesse che offrivano, un morbido corpo su cui tuffarsi, il suo profumo inebriante, lo fecero completamente impazzire.

Perse totalmente e definitivamente la testa, fu amore, Amore vero, come si dice con la A maiuscola. Ma, ahi noi, come tutti gli amori veri fu un amore tragico. Lei l’aveva visto “quel bel terrone impettito e muscoloso”, ma i suoi pensieri peccaminosi da donna vissuta, contrastavano e non poco, con quelli puri e possessivi del pistacchio. Lui la corteggiò, e lei dimostrò di accettare la sua corte. Lui le scrisse lettere d’amore, le portò regali, le chiese di uscire di andare ai bar. Ma, Lei era golosa, più adatta ai picnic e all’ osteria, amava il popolo le basse compagnie, i lavoratori con quelle mani zozze, adorava la forza, il maschio selvaggio, il sudore e la fatica.

Lui era troppo innamorato e dolce per i suoi gusti, e Lei continuò a frequentare altri oltre che Lui. Fu cosi che dopo tanto logorarsi e su consiglio di un culatello, pistacchio ormai verde di gelosia della sin troppo facile e maiala Mortadella, dopo tanti falliti approcci, le si offrì, nudo.

Il piccolo pistacchio perse così la sua scorza da macho latino, la sua imperturbabilità e la sua leggera ma dura, pelle croccante.

Quale sfortunato amore di un Siciliano abituato ai sarcastici Capperi ai Dolcissimi Zibbibi, ai miti consigli degli anziani Marsala, innamorato della grande Mortadella, una nordica grassa e ridanciana Bologna.

Grassa, coi suoi, di cattivo gusto, pallini bianchi, che con lui inoltre rivaleggiavano in dolcezza.

Lei così vivace, dolce, amabile e fresca, Lei era per Lui il ricco Nord freddo e nebbioso, ma anche solare e divertente, leggera nella sua grassezza, infinitamente morbida, e a tutti simpatica nel suo colesterolo, e nella sua poca spocchia. Nulla gli rimase se non farsi abbracciare da cotanta eccessiva trasbordante ricchezza, e resosi anche lui Maiale, si perse nell’incanto dei profumi di pepe e altre spezie, tra conservanti, che sono come la plastica nel salotto buono. Infine abbracciato alla sua grassa compagna,traviato nel vorticoso giro dalla lussuria, fini in un abbraccio fatale, in un magro mezzodì, con una infima, pecoreccia e calda, Pizza Bianca (anche lei emigrante, napoletana ma questa è una altra storia).

Nell’estasi, di un morso operaio.

@lterGeo … Il vino più buono del mondo

Nel 1986 delle partite di vino tagliato con forti quantità di alcool metalinico, causarono 23 morti, danni neurologici  ed in alcuni casi cecità a centinaia di persone.  Avevano  bevuto il  vino delle cantine della  Ciravegna di Narzole  (Cuneo).  Nebbiolo o Barolo a basso costo.  Il vino avvelenato era stato imbottigliato e commercializzato dalla Vincenzo Odore di Incisa Scapaccino (Asti).  In tutto furono una sessantina le aziende coinvolte, secondo la Procura di Milano. Nel 1992 si concluse il processo di primo grado, con condanne a Giovanni e Daniele Ciravegna, rispettivamente di 14 e 4 anni di carcere. A seguito dell’inchiesta, altre bottiglie di vino al metanolo furono rintracciate presso le aziende vinicole di Veronella e Monteforte d’Alpone, in provincia di Verona, e Vicenza.

Queste morti ebbero pesanti ripercussioni anche sul mercato del vino italiano.

L’export italiano in costante cresciuta crollò del 37%  con perdite del mercato pari al 50% in valore assoluto.

Bere male fa male. Bere Metanolo uccide.

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L’Italia in termini assoluti è il primo produttore al mondo per quantità e qualità di vino.   Sono circa 400,000 gli addetti e circa il 4 per cento del Pil e di circa il 13% del fatturato con l’estero

Secondo i dati elaborati da Assoenologi  l’Associazione di categoria la produzione 2015 è stata di 47,6 milioni di ettolitri di vini e mosti,  con un +13% rispetto al 2014 e +4%  rispetto la media decennale.

Per quanto attiene la qualità in Italia”.-  Dice l’associazione – “Le buone riserve idriche accumulate hanno determinato un’interessante ripresa vegetativa, sfociata in una primavera che ha favorito le fasi fenologiche per lasciare poi il posto ad un’estate calda, mitigata però nella seconda metà di agosto, condizioni che hanno sancito un percorso decisamente positivo della maturazione dei grappoli con l’accumulo di sostanze aromatiche e polifenoliche, in particolar modo per i vini ottenuti da uve a bacca rossa che sono state raccolte alla fine di un settembre, un mese decorso in modo perfetto che a memoria non se ne ricordano al pari (addirittura).  L’elaborazione di Assoenologi  ipotizza che la produzione di uva possa oscillare fra i 65 e i 67 milioni di quintali trasformabili con il coefficiente medio del 73%. La produzione, quindi, ritorna nelle medie pluriennali, dopo i forti decrementi del 2014.La qualità c’è tutta, la quantità anche, occorre solo stimolare i consumatori del Mondo a bere italiano.  E su questo fronte sembra che l’Italia sia sulla strada giusta visto che gli ultimi dati elaborati confermano che le vendite all’estero sono cresciute, rispetto allo stesso periodo del 2014, di 6,5% in volume, sia pur calando dell’1,6%  in valore; diminuzione dovuta principalmente alla commercializzazione del vino sfuso”.  Fonte (http://www.assoenologi.it/)

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Il che vuol dire che vendiamo un po’ di meno, ma leggermente più caro, tanto che il valore medio unitario è balzato di un +8,32%.

Quindi un ottimo vino (almeno il 2015 ma con prezzi leggermente più alti a fronte di un blocco delle esportazioni causa sanzioni alla Russia).

La Francia è il paese direttamente concorrente produce più o meno lo stesso quantitativo (47 milioni) ma con un meno  1%  del 2015 dovremmo averla superata . Mentre la Spagna si aggira sui 30 milioni.

Tanto vino quindi J

 

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Ma cosa vuole dire qualità.  In cosa c’è l’essenza della qualità del nostro  vino ?

Come si determina il Migliore vino del mondo È probabile che in questo post non si riesca a dare una singola risposta esaustiva.

Ma incamminiamoci chissà che qualcosa non esca.

Chi determina il valore assoluto del Vino ?  io credo,  il potere e la vanità.

Ovvero , le aste,  quelle  inglesi in particolare che dal 1766 importano e vendono vini di bordeaux riuscendo anche ad imporre ai francesi l’organizzazione delle appelation come origine e  garanzia del prodotto  I  cosidetti Gran Cru o di alto profilo (economico perlomeno).  Dei  Petrus, Romanee Conti (Monopole) i   Saint Emilion,  i Chateau : Lafitte, Latour e Margeaux, buoni per carità. E da qualche anno Gaja (Barbaresco), Sassicaia,  Gallo della Napa valley.

In particolare basta guardare le aste di Christie’s  e Sotheby’s,  che da sole fanno il top di gamma.  Aggiungendoci poi con la globalizzazione dei mercati e le riviste specializzate come la Wine Inspector.

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È dai tempi di Lucio Licinio Lucullo, che nelle tavole dei principi e degli imperatori, si cerchi il prodotto più esclusivo per imporre la propria autorità.  Re e regine si legano ai prodotti alcoolici, Stalin al vino georgiano, Hitler stesso (per quanto astemio) promuoveva il vino della Mosella.  Gianni Agnelli era amante e proprietario del Margaux.  Camillo Benso conte di Cavour del Barbaresco. Einaudi produceva Barolo.

Vino è ricchezza, vino è potere.   Ma ancora non siamo sulla qualità. Se diamo per scontato che il prezzo giustifichi la qualità allora ci siamo.  Il Chateau LaTour di base ha un prezzo tra le 600 (annate non buone) e le 2400 euro a bottiglia (per le annate migliori).  Se si è disposti a spendere quella cifra allora DEVE essere buono.

Da cosa deriva la qualità ?   Dalle uve ?  è uno degli aspetti : uve come Cabernet Sauvignon, Merlot costituiscono la base per il 50% per cento dei grandi vini. Il sapore di cingomma o carammello legnoso è aggiunta alle volte con trucioli e barrique tanto perché il legnoso è una delle caratteristiche dei vini più importanti. (che andrebbero normalmente invecchiati).  Quindi uve buone, e botti,  e  basta.  No !

Servono buoni terreni . Dove cresce la pianta (l’ uva per essere chiari)? Ad esempio  Il  San Lorenzo che è la collina più sfruttata del Barolo. Come il Collio per i friulani e Il Mazzon per L ‘Alto Adige. In quei pochi ettari si concentra il miracolo dei buoni vini.

Uve , terreno e poi ? Pulizia e sistemi di coltivazione attenti alle piogge ,  e poi la cura delle piante …   Pensateci un momento, oltre che un terreno, una pianta, ha bisogno di cure,  ma i suoi frutti avranno anche una lavorazione. È mai possibile che un vino si differenzi dall’altro in maniera così notevole ?

Si e no.   Si  in quanto a diverse condizioni climatiche di terreno di cure in cantina e nei campi il prodotto finale è notevolmente diverso.  No, se pensate che pressando dell’uva lasciandola fermentare e aspettando del tempo in condizioni climatiche ottimali e con pochi accorgimenti il vino sia diverso e altrettanto buono .

È in questo che si scannano gli intenditori o i presunti tali.   Come determinare se un vino è buono o meno,  se ha una qualità migliore di un’altra e a che serve ?  quale metodo di coltivazione e quale metodo di vinificazione sono ottimali e giusti per quella o quell’altra zona ? .  Risposte uniche non c’è n’è.  Se il vino è meno dolce, quindi meno forte di alcool, frizzante o mosso, se non è esattamente quello che ti aspetti è veramente cattivo ? o se usi la chimica per farlo bene, allora è più buono perché assomiglia a quello di Bordeaux ? e se fosse fatto in Cina ?

Ad oggi l’unica verità è il prezzo della Vanità.  Quanto costa è l’unico vero parametro.

Se un vino costa tanto,  è probabilmente buono. Verrà  comprato e LAGGENTE ne parlerà entusiasta.

 

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Chi si allontana da questo parametro è un Darmagi (questa è una citazione per gli appassionati veri ). Un Dannato.   Quindi il sommelier che scopo ha ?

Il critico che a tavola ci decanta i maroni sulle qualità e peculiarità di uno e dell’altro vino dove ci porta?

Al Marketing  o verso la pura dialettica. Se pensate che il vino sia una cosa da mettere a tavola, allora offrite quello che vi piace, al prezzo non badate,  piuttosto spero abbiate una storia da accompagnarci come foste Mario Soldati, che di vino ne capiva poco, ma di storie ne aveva a bizzeffe.

Altrimenti  cercate un produttore vicino casa o in vacanza e magari andateci. Assaggiate, guardate la pulizia della cantina,  i campi coltivati, e il produttore negli occhi. Funziona meglio. Prendetelo da lui il vino e non ditemi che frutto c’è dentro, piuttosto come lo avete conosciuto. Il vino comune della gente normale è  in fondo tutto qui, un viaggio, qualche amico a tavola,

Novemila anni di storia non si fanno alle aste.

Il vino più buono del Mondo Lo bevo domani.

LIbero Laganis secondo Magris

LIBERO secondo Claudio Magris (dal Corriere della Sera 2009). 

Trieste nasconde luoghi fantastici

Joyce, che di osterie se ne intendeva, amava molto quelle triestine, dove spesso la sera beveva più del giusto e arricchiva la sua familiarità con il fluire caldo e impuro della vita, ritrovandolo anche nel farfugliare degli ubriachi e in quella corposa espressione dialettale che sarebbe più tardi riaffiorata nella sua pagina, come per esempio il Conte dalle braghe corte nel Finnegans Wake.

L’uomo, secondo un vecchio detto, è un viandante sulla terra e ogni tanto ama sostare in pace, sedersi in una chiesa o in un’osteria, che a diverso titolo offrono pane e vino e non domandano niente a chi entra, ma lo lasciano riprender fiato. Anche un’osteria può essere un piccolo presepe in cui sostare dopo il monotono e assillante errare della giornata. Una di queste è certo l’amabile locanda in via della Risorta, a pochi passi dalla casa di Joyce. La piccola strada che sale ripida verso San Giusto ricorda, nella sua appartata malinconia, certe vie di Praga, dimesse e misteriose. 

Il proprietario, il mitico Libero ovvero Slobodan, croato italianizzato e la cui famiglia è a sua volta di lontana origine italiana, sarebbe probabilmente imbarazzato se gli si chiedesse di definire univocamente la sua nazionalità. Gli anni di Joyce sono lontani, ma il genius loci si è preoccupato di stabilire una continuità epica con il passato joyciano di quelle strade. Narratore sempre in vena di commentare i bislacchi avvenimenti del giorno, Libero parla una lingua che, sia per le espressioni usate sia per la voce che si mangia le parole in un borbottio progressivamente indistinto, sembra un monologo joyciano, altrettanto difficilmente comprensibile, anche se alla fine ci si accorge di aver capito quasi tutto e comunque di aver afferrato il senso di quel mormorio.



L’osteria ha due stanze; in una, quella dove ci sono anche il banco di mescita e la piccola cucina, c’è pure, sovrastante i tavoli dove si gioca a carte, una finta televisione, una specie di scatolone illuminato che simula uno schermo. Ma è nell’altra saletta, sopraelevata di qualche gradino, insieme desolata e accogliente con le sue panche e pareti di legno, che Libero si siede insieme alla gente con cui vuole conversare, mandando via altri clienti e invitandoli ad andare a bere una birra da un’altra parte, tanto. aggiunge, è ugualmente buona . 

Libero ha avuto una vita varia e colorita, al di qua e al di là della frontiera fra l’Italia e l’ex Jugoslavia, tuttavia non ama parlare di sé, bensì dei progetti e delle invenzioni cui si è dedicato. So bene, mi ha detto una volta nel suo linguaggio irripetibile che ogni traduzione appiattisce, che Lei vorrebbe sentire qualcosa della mia vita, ma non mi interessa, è il mondo che è interessante, non la mia storia. Così, del difficile periodo in Croazia, durante il quale aveva avuto la bella idea, mentre faceva il servizio militare nell’esercito jugoslavo in un momento di tensione politica con l’Italia, di chiedere l’opzione per la cittadinanza italiana. Non evoca i momenti più avventurosi. È libero, come vuole il suo nome, perché non si preoccupa di se stesso ed è quindi preservato dalle ansie e dalle fobie di chi è prigioniero del proprio io. 


Come non è imbarazzato, nonostante la sua età non più verde, quando si tratta di mettere alla porta gente molesta o attaccabrighe, non rimane titubante dinanzi alla realtà . Nella sua osteria si è a casa e se dovesse un giorno chiudere ci si sentirebbe un po’ sfrattati; è uno di quei luoghi in cui si lasciano pezzi della propria persona, come si lascia un ombrello in un caffè, e perdere quei luoghi è perdere un po’ se stessi. Là dentro si sta bene, ma fuori è buio e freddo e, a differenza di quella notte di Natale a Betlemme, non si sentono cori di angeli che annunzino gloria a Dio nei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà. La quiete della strada dove si apre l’osteria fa presto a diventare una deserta e vuota solitudine. E allora anche un canto di santi bevitori può’ essere già qualcosa, un’accettabile supplenza del coro degli angeli”.   

Il risotto alla Bonarda o risotto della Malora.

Una ricetta ha poco senso, se non ha una storia, un ricordo.

Una sera di tanti anni fa un amico chef di un noto ristorante dei Parioli, Piggi definitosi “un Milanese Dop della bassa”, tra il terzo bicchiere e quello di troppo, mi chiese a bruciapelo: “Cosa distingue la cucina italiana dalle altre nel mondo?”.

Pensai fosse facile, e dissi “Lo Spaghetto”;

“No”- sorrise -“Si vede che sei un pirla, il riso, anzi il risotto. L’unica cosa che i cuochi internazionali non riusciranno mai a fare come un Italiano, è il risotto”.

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Ci pensai durante la resaca della mattina dopo.

(Una resaca se refiere a los síntomas desagradables que una persona experimenta después de tomar mucho alcohol) cit. dizionario spagnolo.

Sarà vera questa storia del risotto?. Come potevo sapere se è quello che diceva Pigi era vero?. Nei ristoranti non lo fanno volentieri il risotto, forse perché servono almeno 20 minuti per servirlo espresso. Siamo però il primo produttore al mondo con oltre 9 specie di riso superfino e tutti di alta qualità. Lo stesso Benjamin Franklin rubò i semi del Carnaroli per ripiantarli negli Stati Uniti d’America. Bisogna provarne uno vero per capire. Nei manuali di cucina il riso presenta cinque/sei modi diversi per prepararsi. Il risotto no. Ne ha uno solo. Nei menu internazionali non l’ho trovato mai. Forse ha ragione Piggi. Ecco il perché di questo amore per il Re della cucina Italica (ovvero quello che gli chef internazionali non saprebbero fare).

Il primo che vi racconto è un risotto alla Bonarda, o il “Risotto della Malora”. L’omaggio personale di Daniele Catozzo Oste e chef della “Osteria della Malora” a Mario Soldati (1906.1999), narratore, regista, scrittore e documentarista.

La ricetta e i suoi trucchi sono il meno, quello che in fondo la rende speciale sono la magia del momento, la compagnia a tavola, il cuore e l’amore del cuoco, la curiosità di chi l’assaggia, mancanti questi ingredienti potreste rimanere delusi.

 

Pavia. Passato il ponte coperto la strada si dirige verso le risaie di Arborio, Carnaroli e Baldo, a sinistra compare Borgo Ticino, il vecchio borgo. Passando il ponte coperto e la sua statua con la vedetta e mitragliatrice si arriva sino alla Bocciofila. Mi sono immaginato Mario Soldati e la sua Osteria con annesso campo di bocce. Eccolo li col sigaro mentre si beve una Bonarda. O un Pinot Spumante magari seduto a riva, a guardare le linee mosse del Ticino.

Alluvione

La mia idea di Pavia è esattamente questa: Spumanti, Pinot in bianco, Bonarda riso e rane in ordine sparso. Invece Massimo Marcotullio racconta che “il Ticino è come il Mississipi” e in fondo per lui “Pavia è una città che ha del Blues”. Se lo dice lui che è stato assessore alla cultura, e direttore dello stabile lo prendo per vero. Mi lascio accompagnare da un’atmosfera: “il Blues pavese, Riso, rane, e Soldati che fuma il sigaro mentre gioca a bocce”. C’è una lieve nostalgia, colpa del freddo e di una lieve nebbiolina che sale.

Arriviamo all’Osteria della Malora. Daniele ci attende alla porta. E’ un bell’ospite, ci fa accomodare, ci porge un bicchiere di vino (una Bonarda ferma) e ci mostra i segni sul muro, il livello delle esondazioni distinte per livello delle acque e annate, le mostra con orgoglio come fossero delle bottiglie da collezione, o cicatrici di lunghe battaglie. Questo spiega il nome “della Malora” ogni cinque sei anni va tutto sott’acqua. Daniele è nato nell’oltre Po, sposo della figlia dell’oste, dal 1985 è rimasto in cucina. Uno Chef per amore. Ci fa entrare in cucina, rabbocca i calici, “alla salute”. E inizia la preparazione.

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Armatevi di una pentola con manico saldo, alta abbastanza da saltare il riso

Dosi consigliate

125 grammi di riso (Carnaroli nel caso) a testa.

1 salciccia (pavese a pasta da salame) senza pelle ogni due persone

1 spicchio di aglio

1 cipolla bianca

sale q.b. o pizzichi uno per persona.

una manciata di maggiorana fresca

una bottiglia di Bonarda vivace che non sappia di tappo.

(possibilmente svaporata a parte con chiodi di garofano e io ci metto anche una buccia di arancia, a gusto personale)

un litro e mezzo di brodo da ossa e verdure, caldo.

Scaldate con l’olio o se vi piace con lo strutto, la padella, a fuoco medio.

Aggiungete la carne di salciccia, aglio e cipolla.

Fate rosolare per 5 minuti senza bruciare, aggiungendo brodo.

Sfumate con un po di vino. Togliete l’aglio.

Saltate frequentemente o girate spesso.

Mettete il riso e il sale assieme e coprite con coperchio, asciugate e tostate il riso fino a quando non cambia colore. (Fuoco basso)

Assorbito per bene il grasso (il condimento) iniziate la cottura aggiungendo spesso il brodo molto caldo ad un massimo di tre quarti senza mai farlo bruciare. Sempre girando.

Dopo 10 minuti circa versate lentamente il vino fino a coprirlo completamente e fate asciugare fino a cottura ultimata 8/10 minuti circa.

Quando il riso risulta al dente aggiungete la maggiorana e toglietelo dal fuoco

Se vi riesce servitelo all’onda su piatto ben caldo.

Il risultato è un risotto rosso e profumato di floreale, con una lieve punta di acido, dovuta al vino. “Questo perché io non lo stempero” spiega Daniele, “queste raffinatezze sono successive al modo di mangiarlo della mia infanzia” e “normalmente lo faccio, ma lo preferisco rustico, come lo faceva mia madre“. Un bel riso davvero. Il mio primo risotto vero, alla maniera cara credo a Mario Soldati, Osteria con annesso il campo da bocce.b5a2e-isola3

effetti delle mode inglesi

Ho visto donne fare ore in palestra e mangiare palettate di mais addizionato con zuccheri e antibiotici.  Ho visto donne fare ore di pilates e nutrirsi poi con cornetti di segale e cioccolata bianca. Pane in busta con lieviti in polvere (perché il lievito normale fa male).    Ho visto donne preoccuparsi per l’intolleranza dei loro pargoli accusando il latte, il pane, la carne di maiale, il pollo, i legumi,  i formaggi di nefandezze innominabili.  Le ho viste  e propinare ai loro bambini gallette di riso, polli di batteria, prodotti chimici e buste già fatte.

Ho visto matrone romane con domestico al seguito comprare cibi già fatti e spiegare all’hindi cos’è un basmati. Ho visto gente scartare il grasso del prosciutto, ”perché fa male” e ingozzarsi di ciripoppolosi e tossici hamburger e polpette di soia transgenica.

Ho visto gente rifiutare una bistecca alla brace e mangiare musli a pranzo con pseudo-yogurt di siero e zucchero. Ho visto donne riempire di amuchina qualsiasi cosa pur di non prendere malattie dai gatti. Ho visto gente correre, saltare, sudare e farsi venire l’infarto con la partita di calcetto tra colleghi ultra quarantenni, fare sport estremi, per smaltire le merendine di cui si nutrono.   Ho visto una obesa di 150 chili ordinare tre pizze capricciose e quattro suppli, ma con la cocacola light. Ho visto gente mangiare olio di semi sull’insalata, senza chiedersi da che semi proviene quell’olio. Ho visto gente abolire la pasta e farsi venire il colesterolo e un tumore per mangiare solo carne di manzo.   Ho visto gente mangiare tramezzini alla maionese in tubetto e salmone idem, per poi dirmi che le lasagne fatte da me “fanno male”. Ho visto questa gente prendere montagne di bustine e energizzanti e poi scartare la frutta fresca perché piena di zuccheri.

Ho visto tutta questa gente darmi lezioni su cosa mangiare e perché, ma nessuno di questi darmi un buon consiglio.

Li ho visti tristi perché ha perso la Roma o per non riuscire ad andare in vacanza ad Ibiza.  Li ho visti e mi fanno paura. e non è il monologo di Blade Runner è solo l’immagine di un mondo che non sa dove andare.

Omaggio a Tabucchi.